Arriva al cinema il 15, 16 e 17 maggio BORROMINI E BERNINI. SFIDA ALLA PERFEZIONE, diretto da Giovanni Troilo, già regista di Frida. Viva la vida, Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce e Power of Rome, su soggetto di Luca Lancise, prodotto da Sky e Quoiat Films e distribuito da Nexo Digital all’interno della stagione della Grande Arte al Cinema.
BORROMINI E BERNINI. SFIDA ALLA PERFEZIONE è il racconto della rivoluzione architettonica di un genio solitario che cambia per sempre l’aspetto di Roma attraverso una sfida personale alle convenzioni e ai pregiudizi, con l’umiltà di apprendere dal passato per inventare il futuro, con il coraggio di portare avanti un’idea pagandone il prezzo fino in fondo. Lo stile di Borromini è riconoscibile, eccentrico, diverso: si distingue da quello dei contemporanei e trasuda un’austera autorità spirituale, con perenni allusioni che evocano l’infinito. Ma questa è anche la storia della rivalità artistica più famosa di sempre, quella tra Borromini (1599-1667) e Bernini (1598-1680) e soprattutto la storia della rivalità di Borromini con sé stesso: un genio talmente legato alla sua arte da trasformarla in un demone che lo divora dall’interno, fino a spingerlo a scegliere la morte, con un gesto drammatico, pur di toccare l’eternità.
FRANCESCO BORROMINI
Francesco Castelli non ha ancora vent’anni quando arriva a Roma a piedi da Milano, lasciando i genitori e il suo lavoro di umile scalpellino al Duomo per inseguire il sogno di lavorare nel cantiere più prestigioso del suo tempo, la Fabbrica di San Pietro. È il 1619, Roma è il centro dell’arte occidentale, ‘the place to be’ per ogni pittore, scultore, architetto che desideri la gloria e che consideri Michelangelo il suo maestro. Appena arrivato a Roma, Francesco va ad abitare nella grande casa dove lo ospita uno zio, che lavora come tagliapietre nella basilica vaticana. Grazie a lui, viene catapultato nel cuore pulsante della Fabbrica di San Pietro: lavora a testa bassa sugli stucchi e le decorazioni, copia a mano le modanature di Michelangelo per impararne i segreti; tutto è grandioso, intorno a lui, mentre comincia a scoprire le leggi nascoste dell’architettura. Dopo la morte improvvisa dello zio, caduto da un’impalcatura nel cantiere di San Pietro, Borromini rimane solo nella casa: un labirinto di stanze e finestre che affacciano sulla riva del Tevere, proprio di fronte alla grande cupola immaginata dal suo idolo, Michelangelo. La casa diventa il suo antro, simile a quello di un eremita, e comincia a riempirsi di libri di ogni disciplina e oggetti di ogni tipo, come una Wunderkammer. Grazie alla precisione nel taglio delle pietre e a un incredibile talento nel disegno, Borromini attira l’attenzione dell’Architetto capo di San Pietro, Carlo Maderno, che lo prende come suo assistente. Maderno diventa un secondo padre e l’uomo grazie al quale capisce che la sua vocazione è l’architettura. Ma intanto deve fare i conti con Roma, dove la sorte di un artista, architetti compresi, non dipende solo dal talento. Dipende dal Papa. Ogni nuovo Papa cerca di superare il predecessore in una gara di magnificenza e bellezza. Per chi sogna di farcela, l’elezione di un nuovo Pontefice è come una lotteria. Il Conclave riunito nella Cappella Sistina sceglie il nome di Urbano VIII Barberini e per Francesco non è il biglietto giusto. Urbano VIII ha già individuato il suo prediletto: si chiama Gian Lorenzo Bernini. Da questo momento, la carriera di Francesco è segnata dal confronto con Bernini e con la sua abilità di muoversi tra gli intrighi, le diplomazie e i riti della corte papale. Sotto la guida di Maderno, Borromini e Bernini devono lavorare affiancati nel grande progetto di Palazzo Barberini: emergono qui i primi indizi dell’arte di Borromini, come l’uso della diagonale in alcune finestre. Poi Carlo Maderno muore. Urbano VIII nomina Bernini, a soli 31 anni, Architetto di San Pietro e lo incarica della commissione più importante del momento: il Baldacchino di San Pietro. Francesco diventa ufficialmente il sottoposto di Bernini, che è privo di competenze nelle tecniche architettoniche e spesso chiede aiuto a Francesco. Così è lui ad aiutarlo a risolvere il problema della copertura del Baldacchino e a proporre un disegno originale ispirato alle forme sinuose dei delfini. Ma nessuno lo sa, tutti ammirano solo Bernini, che tiene per sé non solo il merito, ma anche i soldi: la sua paga è dieci volte quella di Francesco. Ma il ragazzo ormai è maturo ed è stufo di lavorare per la gloria altrui. Prende una decisione: si licenzia dalle dipendenze di Bernini per mettersi in proprio e realizzare i progetti che desidera. Francesco Castelli cambia il suo cognome e d’ora in poi si firma Borromini. Azzimato, con i baffi e il collare alla spagnola, il cappello sempre in testa, il mantello e le scarpe con i lacci fino alla caviglia, assomiglia a una vera e propria maschera. Per lui c’è la possibilità di rivolgersi alle più modeste commissioni delle nuove congregazioni e dei nuovi ordini religiosi contro-riformati, che a Roma hanno bisogno di chiese, conventi e oratori. Quello che conta davvero, per Borromini, è solo l’architettura, che sente nascere dal fondo della sua anima e dal suo sentimento dell’assoluto. Prende il suo primo incarico indipendente quasi senza compenso: la piccola chiesa e il convento dei Trinitari Scalzi di San Carlo alle Quattro Fontane (così piccolo che verrà chiamato San Carlino). Prima ancora che sulla collina del Quirinale, la chiesa di San Carlino prende forma via via nei modelli di cera rossa plasmati con le mani da Borromini, sul tavolo che tiene in camera da letto. Fa il disegno, poi il modello in cera come un demiurgo che plasma il suo personale frammento di universo, poi di nuovo il disegno più avanzato, infine comincia a montare il cantiere. San Carlino è figlio delle centinaia di conchiglie conservate nella casa di Borromini, delle stelle marine, delle venature osservate sulle chiocciole o sulle sfere di pietra custodite in quelle stanze. È una rivoluzione nella storia dell’architettura che va oltre il Barocco: lo spazio vuoto diventa un elemento da plasmare, le forme sono tutte curve e dentro è nascosto un ‘teorema architettonico’ basato sul simbolo del triangolo e ‘trucchi’ di costruzione che non sono visibili in modo naturale. I visitatori, inizialmente storditi, sono misteriosamente attratti, avvolti nel guscio di una conchiglia. Borromini ha lanciato la sua sfida. Comincia a suscitare perplessità, qualche volta irritazione negli ambienti artistici e aristocratici romani. Le particolarità che caratterizzano le sue prime opere incuriosiscono e colpiscono ma a molti, compreso Bernini, fanno storcere il naso. Accusato di non rispettare le regole classiche ereditate dal Rinascimento, Borromini è invece il primo a nutrirsi della genialità e dell’ispirazione architettonica nascosta dentro le vestigia del mondo greco-romano che circondano Roma e sulle quali proprio il Rinascimento si era fondato. Il nuovo incarico che si presenta a Borromini, stavolta nella parte bassa e oscura della città, è l’Oratorio di San Filippo Neri. In un dedalo di viuzze, nel fango formato dall’acqua che trabocca dai pozzi, scorrazzano a piedi nudi i figli delle prostitute che lavorano nel quartiere, gli orfani di padre e spesso anche di madre. I Filippini vogliono una ‘casa’ che sorga lì, che sia un’isola di luce nel buio dei vicoli, dove quei ragazzini possono essere sfamati e istruiti e possono ascoltare la musica. È il cristianesimo del cuore, quello che piace a Borromini. Il suo uso innovativo delle linee curve gli fa concepire un edificio con le braccia aperte, in anticipo di quasi trent’anni sulle ‘braccia aperte’ del Colonnato di San Pietro, progettato da Bernini. Un nuovo conclave, una nuova lotteria arriva adesso a stabilire le sorti della storia dell’arte. Il nome è quello di Innocenzo X Pamphili, nemico dei Barberini e quindi anche di Bernini. Stavolta, forse, è il biglietto giusto per Borromini. Il Papa è favorevole a Borromini. Gli assegna la più importante commissione pubblica della sua vita ma lo mette anche di fronte alla sfida architettonica più difficile della sua carriera: la delicata ristrutturazione della Basilica di San Giovanni in Laterano, in occasione del Giubileo del 1650. Per Borromini è un sogno che si realizza, ma non esita a sfidare lo stesso Papa per affermare le sue idee. Un rinnovamento tormentato, dove viene versato anche il sangue di un uomo scoperto a vandalizzare i restauri durante la notte e picchiato a morte dagli operai di Borromini, che viene punito dal Papa ma poi graziato per portare a termine i lavori. È anche il Borromini che non teme di sfidare Bernini, denunciando direttamente al Papa il difetto di stabilità dei campanili progettati da Bernini per San Pietro, ottenendo la demolizione del campanile già costruito, che col suo peso aveva provocato una crepa pericolosa nella facciata della Basilica. Ma Bernini si vendica, soffiando a Borromini, grazie a un sotterfugio, la commissione della Fontana dei Fiumi di piazza Navona. Nel giro di un paio d’anni, Borromini completa il restauro di San Giovanni in tempo per il Giubileo e finalmente può mostrare al mondo anche il suo personale capolavoro, destinato a diventare la sua opera più celebre e monumento simbolo del Barocco. La Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza. L’architetto è all’apice del suo successo e del decennio d’oro nel quale diventa l’architetto più importante di Roma. Ma la ruota gira di nuovo, Innocenzo X muore e un altro conclave si prepara a decidere la sorte dell’arte. Il Conclave sceglie Alessandro VII Chigi, un papa toscano e classicista che non è più disposto a proteggere Borromini: lungo 11 anni di pontificato incontra Bernini circa 400 volte e Borromini solo 25. La sventura è annunciata da una terribile pestilenza che per un anno si abbatte su Roma, provoca la quarantena degli abitanti fermando tutte le attività, compresi i cantieri di Borromini, e da una crepa che si apre sotto Sant’Ivo. Ma la colpa di quella crepa è dello stop del cantiere, non dei calcoli di Borromini. Quella che si avvia a inghiottire Borromini è una spirale, fatta di incarichi perduti e licenziamenti, delazioni, derisioni, accuse false. Comincia a manifestare i primi segni di crisi nervose e depressive, e quella che i suoi contemporanei chiamavano ‘melanconia’, o ‘ipocondria’. Nessuno lo difenderà più dagli altri, ai quali appare diverso, anormale, un outsider chiuso dentro la sua maschera. I nervi cedono, l’insonnia si fa invincibile e anche l’angoscia per il destino dei tanti progetti visionari rimasti sulla carta o abbozzati nella cera: nessuno dovrà vederli più, nessuno dovrà impossessarsene. Così, perde la speranza di raggiungere con l’architettura la sua idea di verità: chiuso nella casa sul fiume, brucia in un falò i progetti immaginati. L’unico progetto che adesso può portare a termine lo trova nelle pagine di Seneca: la libertà di poter scegliere la morte, se la vita si fa insopportabile. Tormentato dall’insonnia, in un impeto d’ira scatenata dal servitore che non gli porta il lume con cui vorrebbe restare alzato a leggere e disegnare, si getta su una delle sue spade, dopo averla legata a un bordo del letto: si ferisce mortalmente, ma lascia incompiuto anche il suo suicidio. Lungo una giornata di agonia, ha il tempo di ricevere i sacramenti per non commettere sacrilegio e di descrivere con estrema lucidità tutti i particolari di quella notte in cui cerca, ancora una volta, di far coincidere gli opposti: costrizione e libertà, paganesimo e cristianesimo, finito e infinito, luce e buio. Lo muove la convinzione, scritta nero su bianco, che lui appartenga a quegli artisti disprezzati dai contemporanei, che solo il futuro potrà ammirare; la certezza che il frutto delle sue fatiche sarà compreso solo tardi, dopo la sua morte. Quasi tutte le sue opere sono incompiute, tranne le parti verticali, che realizza sempre per prime e con le quali ha cambiato per sempre il profilo di Roma: le cupole, le lanterne e i campanili che puntano verso il cielo, che cercano la luce, in una specie di tensione verso l’assoluto.
Al viaggio visivo danno voce e pensiero le rievocazioni in chiave contemporanea, con gli attori Jacopo Olmo Antinori, Pierangelo Menci e Antonio Lanni, e gli interventi degli esperti coinvolti nel film.
LE OPERE, I LUOGHI
- Palazzo Barberini (Maderno; Bernini; Borromini)
- Baldacchino di San Pietro (Bernini; Borromini)
- San Carlo alle Quattro Fontane (Borromini)
- Sant’Andrea al Quirinale (Bernini)
- Villa Adriana (Tivoli, RM)
- Oratorio di San Filippo Neri (Borromini)
- Basilica di San Giovanni in Laterano (Borromini)
- Fontana dei Quattro Fiumi di Piazza Navona (Bernini)
- Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza (Borromini)
- Colonnato della Basilica di San Pietro in Vaticano (Bernini)
- Villa-giardino di Paolo Portoghesi (Calcata, VR)
- Tomba di Borromini in San Giovanni Battista dei Fiorentini