Gangs of London: le prime tre puntate. Alcune considerazioni sulla serie tv trasmessa in prime per l’Italia da Sky Atlantic

Appeso a testa in giù fuori da un grattacielo, un giovane si dibatte e supplica che gli sia risparmiata la vita, mentre un business man dagli occhi di ghiaccio, Sean Wallace (al secolo Joe Call), segna impassibile l’ineluttabilità del suo destino.

Due ragazzini imbracciano un fucile e il padre li incita a far esplodere il cranio di un uomo sepolto vivo e coperto con un secchio. Si riconoscono le fattezze di Sean, mentre solo successivamente si scoprirà di fianco a lui il fratello minore Billy, l’unico con il fegato di premere il grilletto e creare una poltiglia di cervella del malcapitato oppositore di Finn, padrino e capostipite della famiglia Wallace.

Ultraviolenza fisica e mentale, sangue, splatter, sesso spinto, trame avvincenti, inseguimenti, combattimenti all’arma bianca e da fuoco, ritmo sincopato, l’utilizzo reiterato del flashback, il disvelamento di scene ampliando il movimento di macchina. In un’unica espressione, sembra che i segni distintivi del miglior Tarantino siano confluiti nella regia di Gareth Evans, almeno per ciò che si è, fino a questo momento, visto nei primi tre episodi di Gangs of London.

Una serie che è destinata a far discutere, contaminando l’horror, il thriller, il noir, lo stereotipo razziale, il politically “incorrect”, lo splatter, il giallo, la tragedia, l’ironia, il demenziale e il grottesco.

La Londra di questi anni XX del ventunesimo secolo si presenta come una megalopoli tentacolare, dove la ricchezza e gli istinti predatori dei finanzieri della city, le loro passioni e vizi primordiali si intrecciano in un sottobosco di sottoproletariato, di baraccopoli, di bassifondi desolanti.

Tutti in una strenua lotta per la sopravvivenza interclassista, dove l’incrinarsi di un equilibrio, in questo caso l’assassinio del patriarca Finn Wallace, provoca lo scoppiare di faide interne, di lotte belluine, di guerre di assestamento per il controllo del territorio e del mercato.

In tutto questo, l’infiltrato della polizia Elliot Finch (Sope Dirisu) riesce a farsi assumere come autista di fiducia e faccendiere a vario titolo dei Wallace, attraverso una serie di prove e riti di iniziazione che ricordano in modo abbastanza diretto le vicissitudini dei picciotti della nostra Gomorra.

Il business immobiliare è solo una copertura per il semprevivo racket dello spaccio di droga, chi per puro profitto, come il capo delegazione pakistano Mr. Asif Afridi, chi per fini “altruistici” come  Lale (la capo clan curda intenta a finanziare la resistenza della popolazione albanese e curda contro l’incombente e insaziabile appetito di rivendicazione etnica e territoriale di Turchi e Pakistani).

Anche chi dovrebbe impiegarsi in politica per il bene comune, come il figlio di Asif Alexander, concorrente alla carica di sindaco, è in realtà profondamente invischiato e ha bisogno dell’appoggio politico e personale di questi potenti e intoccabili.

Neanche lo sterminio di un’intera etnia, quella degli zingari capeggiati da Jim (David Bradley) durante il secondo episodio, sembra poter placare la smania distruttrice di Sean, spalleggiato dalla madre, intenzionato a scoprire e sradicare chi ne ha ucciso il padre Finn durante una piovosa serata nei sobborghi ultrapopolari, nonché rifugio della comunità albanese, della capitale britannica.

Il tentativo di destabilizzare la cupola e controllare il mercato a seguito dell’omicidio di Finn è destinato temporaneamente a fallire, ma l’incontro nel finale del terzo episodio tra Sean e Lale fa presagire che non si prospettino notti tranquille per il socio in affari dei Wallace Asif.

Se queste sono le prime tre puntate, il seguito (ne sono previste altre sei per questa prima stagione) promette decisamente bene, coadiuvate da un cast di attori di indubbio spessore, molti dei quali provenienti dal teatro e già conosciuti in un’altra serie cult, Game of Thrones.

Nicolò Canziani

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