IL DECLINO DELLA MUSICA OCCIDENTALE

La musica, si sa, richiede concentrazione per essere ascoltata in modo soddisfacente. Bisogna sperimentare su di sé un abbandono che sia la manifestazione di una disponibilità, di un’apertura verso un qualcosa di estraneo a noi stessi, e di difficile definizione, proprio perché non precisabile con i criteri e i canoni della nostra logica e della nostra ragione. Senza voler per forza introdurre riferimenti a visioni del mondo religiose, si potrebbe in ogni caso associare questo genere di ascolto ad uno slancio mistico, tenendo conto che questa è una tensione presente in tutte le culture dell’uomo, indipendentemente dalla sede geografica e dai contatti culturali tra diverse civiltà.

Un anelito universale, che rispecchia in un qualche modo un bisogno primario dell’essere umano, una sua tensione verso un’estasi che in primo luogo si identifica in un forte desiderio di uscire da una ‘rappresentazione’ di un mondo. In questo senso la musica dovrebbe occupare nella vita di tutti un posto molto importante, proprio in quanto in grado di mettere tutto in discussione, soprattutto i luoghi comuni di una civiltà, che ormai da quattro secoli sembra aver rinunciato (quasi) del tutto all’espressione di una singolarità individuale in nome dell’accettazione di un modello produttivo che si interessa in primo luogo all’economia e al profitto, e solo in seconda istanza al benessere materiale e spirituale degli esseri umani. Allora, solo se intese in questo senso, l’arte e la musica costituiscono un atto potenzialmente rivoluzionario – anche se involontariamente – in quanto sembrano ridefinire in altro senso un comune protocollo di priorità con cui si manifesta l’utile individuale e collettivo nella nostra società occidentale.

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Ma tutto ciò è vero solo a livello puramente teorico – a parte rare eccezioni – e anche la musica ha subito in genere lo stesso destino di qualunque merce, che si vende e si compra, e che contribuisce ad una cultura dell’intrattenimento, del resto pienamente in linea con gli obiettivi e le finalità di una civiltà che, alla fine di una dura giornata di lavoro, propone quegli svaghi che nel mondo latino venivano chiamati panem et circenses. Nell’ambito di quella che si definisce oggi come ‘musica colta’, tutto ciò, paradossalmente, sembra ancor più vero che per altri contesti espressivi. L’immagine propagandistica con cui l’accademia solitamente tende a dipingere un quadro di se stessa come di un’oasi felice che si oppone alle logiche di mercato – proponendo esperienze artistiche ed estetiche che altrimenti sarebbero destinate alla completa sparizione se non sovvenzionate dall’apparato pubblico, o comunque da uno sforzo di contribuzione collettiva – basta a spiegare il successo con cui uno slogan di questo genere riesce a giustificare lo stesso operato istituzionale.

Eppure verrebbe da dire banalmente che non è tutto oro quel che luccica. Bisognerebbe, a mio avviso, riformulare a livello istituzionale la priorità di un’espressione estetica e artistica su qualsiasi logica di mercato o di gestione dell’evento musicale inteso come ambito di intrattenimento. E per far ciò bisognerebbe in primo luogo dotarsi di tutta una serie di interpreti musicali che concepiscano l’evento musicale come un’apertura alla possibilità di un di-svelamento di un mistero poetico e interiore, che possano cogliere cioè – anche inconsapevolmente e a prescindere dalle loro convinzioni individuali – l’aspetto sacrale, irripetibile dell’esperienza estetica, e possano in un qualche modo rivelarlo nel momento espressivo.

Invece, nella maggioranza dei casi si assiste, nell’ambito della musica colta, solamente all’espressione di una competenza tecnica ed esecutiva nel momento del concerto – e tra l’altro non sempre – ma che non riporta il fruitore della musica a rapportarsi ad un abbandono estetico che possa assolvere a quella funzione che dovrebbe riequilibrare le spinte eccessivamente e unilateralmente razionalistiche con cui la società occidentale tende a perseguire il proprio utile e il proprio profitto, a discapito della libera espressione individuale di ogni essere umano. Infatti il momento di intrattenimento, per come è concepito, non può mai costituire un ambito di reale espressione artistica – intesa come brevemente delineato più sopra – in quanto esso contempla in primo luogo la presenza, nella migliore delle ipotesi, di un sentimento di ammirazione per una capacità tecnica o espressiva. Tale modo di concepire la fruizione di un evento musicale ha le sue profonde radici in una mutazione dei gusti del pubblico avviatasi verso la metà dell’Ottocento, che ha prodotto un adegua-mento dell’interprete a tutta una serie di richieste e attese di un virtuosismo trascendentale.

Tale deriva ha minato alla radice la possibilità, per l’ascoltatore, di addentrarsi in un ascolto estetico, valorizzando a livello collettivo un ascolto che si potrebbe definire di ‘ammirazione’, che non rinuncia ad un’analisi puramente razionale del dato di espressione tecnica e virtuosistica dell’esecutore. Sembra quasi che la possibilità di sperimentare un genere di ascolto real-mente partecipato a livello emozionale e sentimentale possa avvenire, oggi, a partire dal lascito di alcuni compositori che sembrano muoversi su una linea di confine espressivo, basti pensare al grande Ennio Morricone, purtroppo recentemente venuto a mancare, che, sebbene osteggiato dall’establishment della ‘musica classica’ nella fase iniziale della sua carriera, in quanto compositore di musica per film, si è costruito grazie alla sua arte sublime, gradualmente, una credibilità proprio in quegli ambienti che inizialmente lo avevano marginalizzato. Ed è proprio la musica per film, in questo senso, a costituire un terreno fecondo per la sperimentazione musicale nei nostri giorni, in quanto quella deriva virtuosistica appare del tutto assente, dal momento che il compositore cinematografico ha sempre interiorizzato il concetto, che ‘troppe note a volte fanno solo confusione’.

Ed è dunque proprio in questi ‘territori di confine’, spesse volte completa-mente ignorati dalla realtà istituzionale della musica colta, che nascono forze in grado di opporsi ad una deriva di puro intrattenimento nell’ambito dell’espressione musicale, e la speranza di risollevare le sorti di questa magni-fica forma d’arte, la più sublime, deve essere riposta proprio in questi contesti, a volte marginali, nei quali si muovono individui che prima o poi otterranno la considerazione che meritano. Di ciò sono sicuro.

di Giulio Andreetta

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