Emanuele Aldrovandi, fra i drammaturghi di nuova generazione più apprezzati da pubblico e critica, firma testo e regia de L’estinzione della razza umana, in scena al Teatro delle Moline di Bologna da martedì 11 a domenica 16 aprile. Lo spettacolo, che vede in scena Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia e Riccardo Vicardi, racconta con ironia e tinte tragicomiche, le atmosfere attraversate nei due anni di pandemia nel pieno del lockdown.
Una produzione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Associazione Teatrale Autori Vivi, in collaborazione con La Corte Ospitale – Centro di Residenza Emilia-Romagna.
La pièce è ambientata in un mondo incastrato dentro ritmi frenetici e disumani, che sottraggono tempo al pensiero e all’introspezione, riducendo il dialogo tra gli individui a litigi “da bar” o “da social network”. A ribaltare la situazione è l’arrivo improvviso di uno strano virus che trasforma le persone in tacchini: l’ansia si sospende e la vita di prima non sembra più possibile. Un evidente richiamo ai recenti fatti della pandemia da coronavirus, nell’obiettivo di farne «una sorta di esorcismo – catartico e liberatorio – per aiutarci a metabolizzare il nostro presente con ironia, lucidità e un pizzico di grottesco surrealismo», dichiara Aldrovandi.
Le vicende si svolgono fra le mura asfittiche di un condominio, tra il pianerottolo e l’androne. Protagonisti della pièce sono due coppie e un rider che di tanto in tanto giunge a consegnare cibo, pacchi, acquisti online. Sono tutte persone comuni, ognuna portatrice di una diversa visione della vita: «ho scritto testi molto diversi fra loro dal punto di vista strutturale – racconta Aldrovandi – ma accomunati dal tentativo di mettere ogni volta in discussione quello che Richard Rorty chiama “vocabolario decisivo”, cioè le parole, i concetti e le idee che ogni essere umano utilizza per definire se stesso e la propria visione del mondo. Ho sempre cercato di affrontare queste visioni del mondo senza nessun pregiudizio morale, per poi spingerle alle loro più estreme conseguenze, non de-costruendole col tipico approccio post-moderno, ma piuttosto iper-estendendole, fino al punto di rottura, o al paradosso».
Dalle iniziali chiacchiere di circostanza, i dialoghi tra i personaggi si trasformano progressivamente in uno scontro verbale sempre più intenso, tra frustrazioni, scomode domande e paure.
Senza momenti meta-teatrali o slittamenti temporali, «i cinque attori – prosegue l’autore – interpretano i loro personaggi dall’inizio alla fine all’interno di una storia sì dai contorni assurdi – che appunto sono rappresentati scenograficamente dalla rete da volatili che sostituisce il muro del palazzo e dalle incursioni luminose e vocali del mondo esterno – ma ben radicata nella realtà».
Il presupposto di questo lavoro, anche alla base dell’intera ricerca teatrale di Aldrovandi che ne ha fatto una vera e propria cifra stilistica, è quello di affrontare sulla scena questioni profonde «attraverso una serie di snodi semplici che progressivamente ne restituiscano la complessità in modo coinvolgente, con l’obiettivo però di arrivare, attraverso l’iper-estensione, a mettere in crisi il proprio punto di vista – e quindi quello dello spettatore»