Intervista con Giorgio Pasotti, protagonista della serie “Lea – I nostri figli”: “Da ragazzo sognavo di diventare medico e mi ha fatto un po’ effetto indossare il camice sul set”

“Credo che il successo della serie sia legato al fatto che ci si possa rivedere facilmente nei personaggi, entrando in empatia e capendo anche i loro sbagli”. Venticinque anni di carriera (qualcuno in più se si contano i primi film girati in Cina), dal 2020 è direttore artistico del Teatro Stabile d’Abruzzo, sta lavorando alla sua terza regia cinematografica, è uno degli attori più amati del panorama italiano, ma ha sempre mantenuto l’umiltà e la passione infinita per questo mestiere: Giorgio Pasotti è protagonista, accanto ad Anna Valle, di “Lea – I nostri figli”, coprodotta da Rai Fiction e Banijay Studios Italy, con la regia di Fabrizio Costa, in onda in prima serata su Rai1 dal 12 novembre per quattro appuntamenti.

Nella serie interpreta Marco Colomba, Primario di Pediatria all’ospedale di Ferrara, chirurgo talentuoso ed ex marito di Lea (Anna Valle), che in questa seconda stagione condivide la custodia di Gioia, avuta con Anna (Eleonora Giovanardi), l’ex compagna con cui ha un rapporto burrascoso. Spesso fatica a conciliare gli impegni lavorativi con i doveri paterni, ma è deciso a essere più coinvolto nella vita della figlia. Intreccia una relazione con Valeria (Claudia Vismara), un’ispettrice che lavora a stretto contatto con l’ospedale, ma la ritrovata vicinanza a Lea gli confermerà che forse è arrivato il momento di darsi una nuova possibilità.

COPYRIGTH © P.BRUNI_87337 (Copia)

Giorgio Pasotti in “Lea – I nostri figli” – credit foto P. Bruni

Giorgio, com’è stato tornare a vestire i panni del primario Marco Colomba in “Lea – I nostri figli” e qual è, dopo due stagioni, il tratto che predilige del suo personaggio?

“Nella prima stagione Marco aveva un carattere particolare, se sul lavoro era un medico molto bravo, nella vita privata aveva commesso degli errori piuttosto seri. Questo mi era piaciuto tanto perchè non era un eroe a tutto tondo, ma un uomo con dei limiti dettati dal fatto di essere umano e quindi fallibile. Ho accettato di interpretare questo ruolo anche per la sua imperfezione. Nella seconda stagione lo ritroviamo single, alle prese con una bambina di tre anni, Gioia, a cui non vuole far mancare l’affetto, le attenzioni, ma al contempo ha anche la responsabilità di essere il primario di pediatria dell’ospedale di Ferrara, e cerca di venire a capo di questa situazione “scomoda”. Come tutti i padri single è in affanno, alla rincorsa del tempo che passa, quindi è più amabile, simpatico, ironico”.

E possiamo dire che è diviso tra tre donne, Lea con la quale permane un legame di amicizia e affettivo, l’ex moglie Anna con cui ha un rapporto complicato e l’agente Valeria…

“Sono tre donne e tre relazioni molto diverse tra loro. Con Lea ha un rapporto ormai di amicizia, di stima, di mutuo sostegno e anche di complicità nel lavoro e nella vita privata, perchè affrontano la stessa situazione: lei deve crescere Martina, la figlia del suo fidanzato Arturo, di cui si è presa carico mentre lui è in giro per il mondo a suonare, Marco invece deve occuparsi di Gioia. Tutto questo farà forse riaccendere tra loro una scintilla passata o che pensavano di aver definitivamente spento. Con Anna, la sua ex, ha un rapporto burrascoso, perché ha difficoltà nell’accettare che la vita vada avanti e che lei abbia un nuovo compagno, di cui è geloso per il tempo che può passare con sua figlia. E’ un sentimento sbagliato ma in qualche modo naturale e Marco dovrà fare i conti anche con questo. E poi c’è Valeria, una poliziotta che fa delle avances al mio personaggio ma lui è fermo nella sua missione di crescere Gioia e svolgere al meglio il suo lavoro. E’ come un equilibrista che in un attimo può cadere, rispetto alle responsabilità e alle cose che deve gestire”.

COPYRIGTH © P.BRUNI_91638

Giorgio Pasotti e Anna Valle in “Lea – I nostri figli” – credit foto P. Bruni

Ha trovato dei punti di contatto con il suo personaggio?

“Un punto in comune è innanzitutto la situazione di padre single, che ho provato anni fa quando mi separai dalla madre di mia figlia Maria e ricordo bene quegli affanni, quel sentirsi sempre in colpa e rinunciare a ciò che ti riguarda in nome della sua felicità. Per il resto anche Marco ha una dedizione al lavoro maniacale, quasi totale, e questo ci accomuna, e poi è un medico e nella mia vita passata, quando ero più giovane e fresco di liceo, volevo fare questo mestiere. Le cose sono andate diversamente, ma vedermi con addosso il camice, sapendo che quella avrebbe potuto essere la mia vita, mi ha fatto un po’ effetto”.

Si è mai pentito di quella scelta?

“No, anzi credo che non sarei stato un grande medico. E’ stato meglio così, visti i risultati (sorride)”.

Ogni personaggio all’interno della serie cerca la propria felicità in qualche modo, qual è la sua idea di felicità?

“Oggi per me la felicità è sapere di avere accanto persone felici, la mia compagna, mia figlia, i miei genitori. Dopo di loro vengo io, che desidero la serenità, quindi rifuggo e cerco di evitare discussioni inutili, sterili o di perdere tempo con cose di cui non mi interessa nulla. Seleziono anche le emozioni, che devono essere riferite solo a ciò che mi sta veramente a cuore”.

COPYRIGTH_ P.BRUNI_88882(0)

credit foto P. Bruni

Quale pensa possa essere un punto di forza di questa serie molto amata dal pubblico?

“Credo che il successo della serie sia legato all’umanità di queste persone. Si pensa sempre che i medici e le infermiere siano degli eroi in quanto salvano le vite altrui e che la loro vita non abbia bisogno di altro, che sia perfetta, invece sono esseri umani e nonostante abbiano un lavoro di grande responsabilità, poi tornano a casa e fanno i conti con la realtà, che è fatta di quotidianità, di matrimoni che falliscono, di speranze che non vengono rappresentate come uno vorrebbe, hanno i nostri stessi problemi. Quindi è facile rivedersi, entrare in empatia con questi personaggi, capirne le pressioni, anche gli sbagli e fare il tifo per loro”.

Di cosa va più fiero di questi suoi primi venticinque anni di carriera?

“Sono fiero di non aver mai cambiato idea su questo lavoro che amo infinitamente. Tutte le mie scelte professionali, alcune azzeccate e altre meno, sono state figlie di una passione, non certo di quello che un progetto mi avrebbe restituito in termini economici o di popolarità. Ho sempre pensato come se fossi uno spettatore al film, alla serie, allo spettacolo che avrei voluto vedere. Ancora oggi dopo venticinque anni scelgo sulla base di un mio gusto personale e questa è una grande libertà che mi regalo perchè non sono condizionato da fattori esterni. Mi auguro e spero che questo non cambi mai”.

Dal 2020 è direttore artistico del Teatro Stabile d’Abruzzo, come vede il futuro del teatro?

“I teatri, come gli spettacoli dal vivo, stanno registrando un’affluenza incredibile, una partecipazione senza precedenti. Credo abbia influito molto la pandemia, c’è voglia di socializzare, di vivere eventi emozionanti condividendoli con altre persone. E’ un momento felice ma anche critico perchè chi fa il mio mestiere e dirige teatri pubblici deve impegnarsi oggi per far sì che il pubblico di domani si innamori di nuovo di questa arte”.

Come è possibile portare avanti questo proposito?

“Bisogna fare spettacoli e programmazioni che strizzino l’occhio ai giovani senza dimenticarci ovviamente degli abbonati che hanno permesso al teatro di sopravvivere per decenni. Seminare oggi vuol dire ritrovarsi in futuro le sale piene di ragazzi e ragazze che spesso e volentieri hanno evitato il teatro perchè gli spettacoli erano egoriferiti, non erano indicati a loro. E’ necessario invece pensare ad opere che raccontino non solo i grandi classici ma anche temi scomodi. Il teatro infatti ha questo dovere intrinseco di stimolare il pensiero, è un luogo magico, come il cinema, e non passerà mai di moda”.

A proposito di teatro, è protagonista dello spettacolo “Racconti disumani” con la regia di Alessandro Gassmann, in cui si misura con le parole di Franz Kafka che sono sempre attuali perchè nella realtà odierna ritroviamo le paure di cui parla…

“E’ stata un’esperienza fantastica e riprenderò a breve questo spettacolo stupendo, con grande voglia e felicità. Sono affezionato ad Alessandro Gassmann che è un regista meraviglioso e alle parole di Kafka che sono eterne e purtroppo molto attuali in questo periodo. Vedendo “Racconti disumani” si scopre che la vita, l’ambiente, le regole degli animali possono essere più umane di quelle degli uomini o comunque più giuste, più tendenti alla nostra civiltà. Per contro noi ci stiamo trasformando in bestie senza morale, senza etica, con una cattiveria e una ferocia senza precedenti, con interessi che non hanno nulla a che vedere con qualcosa di nobile. Kafka lo aveva capito un secolo fa e riproporre queste parole drammaticamente attuali fa sì che questo spettacolo venga apprezzato dalle persone che hanno così modo di ragionare e riflettere”.

In quali progetti sarà prossimamente impegnato?

“Sto lavorando da tempo alla mia terza regia cinematografica e spero che questo progetto possa vedere presto la luce. Poi usciranno nelle sale anche due film a cui ho preso parte”.

Giorgio Pasotti_PH Andrea Chiabai (32)

Che viaggio è stato invece quello della serie “Di padre in figlia” sulla storia dell’Atalanta e di Bergamo?

“E’ stato affascinante e anche una bellissima scoperta. Non conoscevo infatti l’universo dei podcast, non l’avevo mai approfondito. E’ stato meraviglioso far vivere ai tifosi dell’Atalanta e in generale a tutti gli appassionati di calcio il significato di trasmettere una passione sportiva ai propri figli attraverso l’uso della parola, che poi è l’arma unica di noi attori, oltre al corpo. Usare la mia voce per raccontare qualcosa di così dolce e speciale è stato toccante, e mi auguro quanto prima di ripetere questa esperienza”.

L’abbiamo vista nelle vesti di ballerino per una notte insieme ad Anna Valle a “Ballando con le stelle” in un eccellente boogie. Le piacerebbe partecipare in futuro al dance show come concorrente?

“Non credo, ma mai dire mai (sorride). Vorrei però spezzare una lancia a favore della mia categoria. Spesso c’è una sorta di pregiudizio nei confronti degli attori e delle attrici italiani per cui ci si stupisce che oltre a recitare sappiano anche ballare, cantare, magari suonare. Invece è normale che sia così perchè sono professionisti molto preparati nelle varie discipline, sono artisti completi, e utilizzano il corpo, la voce e gli strumenti in loro possesso per affrontare ruoli diversi e fare spettacolo. Sarebbe bello che venissero valorizzati maggiormente anche i talenti nostrani”.

di Francesca Monti

foto copertina copyright P. Bruni

Si ringrazia Vincenza Petta

Rispondi