Intervista con Natasha Stefanenko: “Il romanzo “Ritorno nella città senza nome” è una testimonianza della mia vita”

“L’intento era far capire come si formava la mentalità dei russi in quel periodo storico, dove c’era un forte cambiamento culturale, politico e sociale che ha portato ad un’apertura inaspettata”. Natasha Stefanenko con “Ritorno nella città senza nome” (Mondadori) racconta l’anima di un paese grande, inquieto e disorientato, l’Urss degli anni Novanta, che vive la fine di consolidate certezze e anche la dirompente irruzione di nuove libertà. Un romanzo avvincente, emozionante, di pregevole fattura, largamente autobiografico ma anche ad alto tasso thrilling.

Dopo aver ricevuto un’allarmante comunicazione di sua madre, Natasha si precipita alla stazione Jaroslavskij di Mosca per salire sul treno notturno 572 diretto a nord. Sa che qualcosa di terribile è già accaduto: suo padre Sergej, ingegnere nucleare e convinto sostenitore della politica sovietica, è improvvisamente scomparso senza dare notizie di sé. Il presentimento che la  sparizione nasconda verità che non devono essere svelate e l’opprimente sensazione di essere pedinata l’accompagnano per tutto il viaggio fino a Sverdlovsk-45, la città dove Natasha è nata e cresciuta. Un luogo strategico che per ragioni militari non appare sulle carte geografiche, circondato da filo spinato e sottoposto al controllo del governo federale, dove si lavorava alla costruzione dell’arsenale nucleare sovietico e ora, con i nuovi accordi voluti da Gorbačëv e Reagan, al piano di progressiva dismissione delle armi atomiche.

Pur muovendosi con intraprendenza nella sua città natale, le indagini di Natasha giungono presto a un punto morto. Solo quando arriva Alex si aprono due nuove piste: la prima legata al padre, che la riporta a Mosca, la seconda che le fa intessere un’altalenante relazione d’amore proprio con l’ambiguo Alex.

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Natasha, come e quando ha iniziato a scrivere “Ritorno nella città senza nome”?

“Questo libro ha avuto una lunga gestazione, infatti più di dieci anni fa ho iniziato a mettere per iscritto alcuni flashback della mia vita, aiutata da mio marito Luca che scrive poesie e che ha abbellito questi pensieri. Mi piace conoscere gli eventi legati al mio passato e a quello dei miei genitori, quindi volevo fermare sulla carta i ricordi, dato che con il tempo rischiano di sbiadirsi, e che restasse qualcosa di me a mia figlia Sasha. Quando sono arrivata in Italia, trenta anni fa, le persone mi chiedevano se esistesse realmente questa città segreta da dove provenivo e quando rispondevo in modo affermativo dicevano che avrei potuto raccontare la mia storia in un film o in un libro. Così ho cominciato a pensare cosa mi sarebbe piaciuto scrivere”.

Com’è arrivata l’idea di un romanzo largamente autobiografico e ad alto tasso thriller?

“Un’autobiografia mi sembrava troppo autocelebrativa e forse anche un po’ noiosa, e poi avrei dovuto fare ricerche, verificare le informazioni. Così è nata l’idea di un romanzo, dove c’è questa parte di fantasia che dà ritmo e si mescola alla mia storia, per raccontare veramente cosa è successo, com’è stata la mia infanzia e come hanno vissuto le persone in quel periodo, dove c’era confusione, smarrimento. Il 1991 e il 1992 sono stati due anni molto intensi e significativi e mi sono concentrata su quelli”.

Il libro offre uno spaccato storico, sociale, culturale della Russia del 1991 e 1992, senza però dare un giudizio politico ma raccontando ai lettori attraverso i suoi occhi e le sue parole quanto accaduto…

“L’intento era far capire come si formava la mentalità dei russi in quel periodo storico, dove c’era un forte cambiamento culturale, politico e sociale che ha portato ad un’apertura inaspettata. In quei due anni sono crollate tutte le certezze, è stato stravolto il nostro futuro, volevamo la libertà ma non sapevamo come gestirla perchè non eravamo abituati a vedere la vita con i nostri occhi poiché c’era il governo che pensava a noi e ci diceva cosa fare, dove andare, che lavoro scegliere. Questa mentalità è radicata nella storia, nel Dna, forma la nostra persona e la nostra personalità. Ogni paese ha le sue evoluzioni, che possono essere lente o veloci, ed è quindi importante conoscere il passato, senza dare per scontato nulla, per capire anche i pensieri e le culture differenti. Quegli anni davvero incredibili hanno portato ad un cambiamento di equilibri nel mondo, quindi volevo soffermarmi su quanto è accaduto anche nella mia vita. L’85% di ciò che racconto nel libro è la verità, a volte mi sono dovuta limitare per non esagerare e sembrare poco credibile. Poi ci sono alcune parti inventate ma neanche tante”.

Leggendo “Ritorno nella città senza nome” c’è una figura che è stata per lei molto importante, oltre ovviamente ai suoi genitori: nonna Lidia, una donna forte, saggia e con una grande fede… 

“Mentre ai miei genitori ho dato un nome diverso nel romanzo anche per una questione di privacy, ho deciso di lasciare quello reale di mia nonna. Aveva una storia incredibile, era saggia e aveva una grande fede che non ha mai abbandonato, benché l’Unione Sovietica fosse forzatamente atea. Quando ero già adulta le ho regalato un’icona in legno di San Nicolai, a cui era devota. Nicolai era anche il nome di suo marito, l’unico amore della sua vita. Nonna non si è mai separata da quell’effigie. E’ una donna che mi ha insegnato ad amare nonostante tutto e a perdonare. Lei ha perdonato tutte le persone che aveva intorno e che le hanno fatto molto male. Inoltre ha insinuato dentro di me questo dubbio sulla religione. A scuola ci insegnavano che “Dio non c’era, che Dio eravamo noi”, e una volta tornata a casa ponevo delle domande a mia nonna riguardo queste tematiche e lei con calma e dolcezza rispondeva: “Dio è dentro di noi, cerca di parlare con lui e ti aiuterà a trovare il percorso nella vita”. Con il tempo ho fatto delle riflessioni, ho cercato di capire, e mi sono battezzata a 40 anni, non per le nozze perché all’epoca non mi sentivo ancora pronta. Mio marito voleva che ci sposassimo in chiesa, magari un giorno accadrà”.

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Nel libro racconta della sua passione per il nuoto, del sogno olimpico e di quanto Natalia Strunnikova fosse per lei un esempio di tenacia e determinazione…

“Per sette anni la mia giornata tipo è stata andare in piscina alle sei del mattino, poi a scuola, quindi correre a casa a fare i compiti in mezz’ora, recarmi in palestra e di nuovo a nuoto. Per fortuna in matematica e in fisica andavo bene, mentre dovevo applicarmi maggiormente in geografia e storia perché richiedevano più tempo per memorizzare le informazioni, infatti quando ho partecipato a Back to school su Italia 1 mi sono messa a studiare come una pazza per non fare brutte figure in quanto temevo che i ragazzini mi potessero chiedere ad esempio la capitale di uno Stato e non sapessi rispondere. Ogni giorno nuotavo dieci chilometri, il nuoto era la mia vita. La domenica era l’unica giornata libera e mi mancava la piscina. Il mio sogno era partecipare alle Olimpiadi del 1984 ma poi ho rallentato per concentrarmi sullo studio, perché all’epoca era quasi impossibile sopravvivere solo con lo sport. Alexander Popov nuotava insieme a me e ce l’ha fatta, è diventato un campione olimpico. Io sono felicissima e orgogliosa di lui che è nato nella mia città. Ha rischiato e ha fatto bene, ma c’era l’uno per cento di possibilità di riuscire ad avere la sua stessa carriera, quindi ad un certo punto ho dovuto forzarmi per lasciare il nuoto e ho scelto ingegneria metallurgica che mi avrebbe garantito un lavoro e un futuro sicuro. Avevo anche pensato di fare l’istruttrice di nuoto o di seguire il consiglio di mia mamma di rimanere a Sverdlovsk-45 a studiare perché c’era una filiale dell’università di Mosca per poi lavorare con l’uranio. Un giorno però mia sorella mi ha letteralmente chiuso in bagno e mi ha detto che nella nostra città non c’era futuro e che dovevo andare a Mosca. E così ho fatto”.

Quando è arrivata nella capitale che sensazioni ha provato?

“Per me era come essere in un altro pianeta. Mosca era raggiungibile in treno con un viaggio di trentasei ore e io non ero mai stata fuori casa per un giorno, se non quando nuotavo ma sempre con i grandi che mi accompagnavano. Uscire dalla mia città, dal mio guscio, dalla mia protezione, e tuffarmi in una metropoli enorme, con parecchi milioni di abitanti, è stato uno step importante che mi ha aiutato a sopravvivere poi anche in Italia. Da ragazza ero molto complessata ed è stato difficilissimo per me ambientarmi, poi piano piano ci sono riuscita”.

Lei è una persona molto ironica e autoironica, come possiamo vedere anche nei divertenti video che posta su Instagram insieme a suo marito e a sua figlia. Quanto questa autoironia le è stata di aiuto nelle situazioni più difficili?

“E’ fondamentale per me e ringrazio sempre papà che mi ha insegnato ad essere autoironica, a prendermi in giro, a vedere le situazioni da un altro punto di vista, non solo drammatico ma in qualche modo utile per la nostra crescita. Lui sdrammatizzava tutto, anche quell’atmosfera che c’era nella città segreta e che ora mi rendo conto fosse inquietante. Io ero la bambina più felice del mondo perchè avevo dei genitori meravigliosi, una nonna fantastica, mia zia, i miei cugini, il nuoto, quindi ho vissuto una bella infanzia. Andavo con papà a vedere le partite di hockey, a sciare, a fare le passeggiate, ci divertivamo. La città era circondata completamente da muri, allarmi, filo spinato, con i cani che correvano a destra e a sinistra e i militari armati di kalashnikov che eseguivano i controlli e se qualcuno voleva passare veniva bloccato. Io sono nata lì ed era normale, se non hai un termine di paragone pensi che tutto il mondo funzioni così. Per me rappresentava una sicurezza”.

Nel libro infatti racconta che preparava poesie e canzoni da recitare e cantare quando doveva passare i varchi…

“Prima del compimento dei sette anni non era necessario il pass. Papà allora mi diceva di raccontare una poesia, di fare un balletto, di cantare una canzoncina al momento di passare i varchi, quindi per me diventava un mini palcoscenico e ogni volta preparavo un’esibizione e cercavo delle alternative. Non capivo però per quale motivo i militari mi guardassero con una faccia strana, poi crescendo mi sono resa conto che papà aveva inventato quella sorta di gioco per rendere meno pesante quella situazione. Ricordo ancora il giorno in cui ho fatto la foto per ottenere il mio primo pass, ero molto orgogliosa. Non c’era mamma perché nella nostra città chi lavorava aveva la possibilità per un mese di andare nelle Spa per curare la salute, in quanto, anche se non eravamo a stretto contatto con l’uranio, c’erano comunque delle radiazioni. Spesso le vacanze dei miei genitori non combaciavano. Quel giorno infatti c’era papà che mi ha fatto le trecce, per la prima e ultima volta, e si vede nella foto (ride)”.

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Natasha mentre è sul treno che la sta riportando a S-45 tira fuori dalla borsa il suo romanzo e si sente meno sola. Cosa vorrebbe arrivasse ai lettori che leggeranno “Ritorno nella città senza nome”?

“Ritorno nella città senza nome è una testimonianza della mia vita e uno spaccato della Russia del 1991-1992. Spesso non viene compresa la nostra mentalità, il patriottismo, ma queste radici, questi ricordi sono dentro di noi. Basta leggere alcune opere di Bulgakov come Il Maestro e Margherita o Cuore di cane per capire la nostra storia. Attraverso questo libro volevo raccontare la mia esperienza diretta, vorrei che arrivasse ai lettori quell’aria che respiravamo, quella confusione, quella voglia di vedere il futuro anche se avevamo paura e allora cercavamo di unirci, di sopravvivere. Io mi sono salvata perchè nel 1992 sono andata via e ho toccato solo con un dito questo passaggio fortissimo, questa crisi, questo forte cambiamento culturale, politico e sociale che è avvenuto in Russia. Anche il personaggio di Alex non è inventato, era presente realmente la malavita organizzata. La caduta di Gorbaciov, l’arrivo di Eltsin, il disarmo nucleare… sono successe tante cose così velocemente che sembrava di vivere in un film. Sono stata fortunata, sono nata in una realtà incredibile, in quei due anni ho affrontato tutte queste vicissitudini e ho imparato molte cose, poi sono arrivata in Italia che mi ha dato e mi dà tanto. E’ come se ci fossero tante sfumature diverse che convivono dentro di me. So cosa significa essere smarriti, insicuri, sentirsi brutti, avere paura del futuro ma andare avanti, seguire l’istinto e credere che avverrà qualcosa di bello”.

A livello culturale e nel modo di vivere qual è stata la differenza che ha riscontrato tra Russia e Italia?

“Sono due culture molto diverse. In Italia voler bene a se stessi è normale, mentre in Russia sei al servizio della tua terra, della famiglia, delle persone che ti amano. Nessuno ti insegna a voler bene a te stessa. Inoltre c’è questa ricerca continua del perfezionismo che può diventare un peso. Quando ad esempio prendi il massimo dei voti la maestra dice “brava ma potresti fare di più”, quindi non riesci a goderti il momento, mentre in Italia ho imparato ad essere felice del risultato ottenuto, sapendo di aver fatto il possibile. Bisogna cercare un equilibrio per essere felici con se stessi e con gli altri. Crescendo ho imparato anche a non aver paura di sbagliare, perchè gli errori ti insegnano tante cose e fallire è utile per migliorarsi. Io ho due cuori, uno russo e uno italiano, e cerco di prendere il meglio delle mentalità di entrambi i Paesi”.

di Francesca Monti 

Si ringraziano Chiara Giorcelli, Nancy Sonsino e Andrea Fantacci

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