Martedì 20 ottobre debutta in prima assoluta al Teatro Storchi di Modena lo spettacolo “La mia infinita fine del mondo”, prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione e diretto da Lino Guanciale, che approda alla sua seconda regia dopo “Nozze” di Elias Canetti.
A partire dalla drammaturgia di Gabriel Calderón, tradotta in italiano da Teresa Vila, il regista dirige sei attori della Compagnia permanente di ERT: Michele Lisi, Paolo Minnielli, Maria Vittoria Scarlattei, Cristiana Tramparulo, Jacopo Trebbi, Giulia Trivero.
“La mia infinita fine del mondo” restituisce un tableau di possibilità di relazione con la nevrosi della fine, ponendo l’accento non più soltanto sulla disperazione che il crollo di un mondo porta inevitabilmente con sé, ma sulle possibilità che si aprono ogni volta che la storia torna a insegnarci che nulla dura per sempre. In scena si passano in rassegna alcune delle transitorie apocalissi attraversate dal pianeta e dall’umanità fin dalla preistoria, fra eruzioni vulcaniche ed ere glaciali, diluvi universali e crisi economiche d’epoca preindustriale, intrecciate al vissuto di precarietà personale di un piccolo manipolo di giovani protagonisti. Quanto questa tensione naturale nei confronti del limite influenza o determina il rapporto con le strutture economiche e politiche della nostra realtà? Su questo fronte e non solo, la crisi pandemica globale ha introdotto nuovi elementi di riflessione collettiva, fornendo l’occasione per la costruzione di una consapevolezza diffusa riguardo l’imprevedibilità del rapporto fra uomo e Natura e le relative conseguenze tanto sulla storia delle istituzioni che su quella personale.
Artista di casa in ERT Fondazione, Premio Ubu 2018 come miglior attore e Premio ANCT 2018 per la sua interpretazione ne “La classe operaia va in Paradiso” diretto da Claudio Longhi, nonché protagonista di serie tv di grande successo come “La porta rossa”, “Non dirlo al mio capo” e “L’Allieva 3” in cui interpreta Claudio Conforti, in questa intervista che ci ha gentilmente concesso Lino Guanciale ci ha parlato di come è nata l’idea di mettere in scena “La mia infinita fine del mondo”, del futuro del teatro e dei suoi prossimi progetti.
credit foto Francesca Cappi
Lino, martedì 20 ottobre debutta in prima assoluta al Teatro Storchi di Modena “La mia infinita fine del mondo”, il tuo secondo spettacolo da regista. Cosa ti ha convinto a portare in scena questo testo di Gabriel Calderón?
“E’ a tutti gli effetti un’operazione figlia dell’emergenza che ci coinvolge a livello globale perchè io e Gabriel abbiamo cominciato a parlare di questo progetto durante il lockdown. Con Claudio Longhi ci siamo confrontati molto nel periodo della chiusura totale su come avesse senso impostare il lavoro su nuove produzioni perché sembrava grottesca l’idea di cercare semplicemente il momento per riadattare gli spettacoli già esistenti con tutto quello che invece stava succedendo e cambiando in virtù della pandemia. Quindi Longhi ha elaborato l’idea di questo assetto produttivo fino alla fine del 2020 in cui io per altro mi riconosco molto, con l’ensemble degli attori permanenti di Ert e su testi di nuova scrittura elaborati da drammaturghi di livello internazionale come Gabriel Calderòn che fossero in qualche modo scritti non sul covid ma partendo dalla sensazione di sconvolgimento totale e dalla traumatizzazione generale in virtù di quello che ci sta accadendo. Ho quindi accettato questa idea di slancio e ho iniziato a pensare a un progetto teatrale che si confrontasse con il concetto di fine della storia in senso fukuyanesco, infatti il titolo del celeberrimo libro di Francis Fukuyama è “La fine della storia e l’ultimo uomo”, che è stato anche in parte frainteso come una specie di ammissione di fine della dialettica storica all’indomani della caduta del Muro di Berlino, col trionfo del blocco occidentale. Dopo questo evento non ci sarebbero stati più sconvolgimenti epocali, sostanzialmente il modello uscito vincitore dalla guerra fredda sarebbe stato destinato a un progressivo sviluppo senza l’intervento di altri traumi storici. Poi è arrivata la pandemia e questo fraintendimento della lettura del dettato di Fukuyama o la disattesa di questa prospettiva è diventata palese per tutti perchè è stato evidente che invece qualche cosa di imponderabile che inceppasse la macchina delle magnifiche sorti progressive del sistema in cui tutti nel mondo occidentale viviamo poteva arrivare ed è arrivato”.
Come hai lavorato insieme a Calderòn per la realizzazione dello spettacolo?
“Ho iniziato a parlare di questa idea, del problema che abbiamo nel non saperci confrontare con enormi cambiamenti, di non sapere leggere i segni della fine di un mondo e dell’inizio di uno nuovo, di non essere coscienti di quando qualcosa staticamente si sta estinguendo per far posto ad altro o anche il fatto che determinate fini arrivino senza che sia ponderabile il momento in cui accadono. Mi sono quindi confrontato con Gabriel che è stato entusiasta e ha scritto questo testo molto stimolante e ricco di spunti intelligenti in cui si mescolano una vicenda privata di un nucleo famigliare alle prese con la fine di un’epoca, con la capostipite che sta morendo, insieme a scene surreali o fantastiche molto divertenti tratte da celeberrime estinzioni del passato o del futuro più remoto, dai dinosauri al diluvio universale fino all’incontro tra particelle atomiche dell’universo, una volta che sarà stato il nostro pianeta ad estinguersi. E’ una sorta di catalogo delle apocalissi, da quelle private a quelle generali, che non ha la pretesa di risolvere nulla né di proporre delle soluzioni per dare delle istruzioni per l’uso in caso di fine. E’ una specie di fenomenologia dello sgomento umano di fronte ai grandi cambiamenti della storia, della vita e della natura”.
credit ph Serena Pea
C’è un fil rouge che lega idealmente i due spettacoli che hai diretto: la paura dell’uomo di fronte al cambiamento. Nel caso di “Nozze” era il timore di perdere la propria identità e la voglia di difendere il proprio io, in “La mia infinita fine del mondo” è la paura della fine…
“Assolutamente sì, c’è un legame tra i due spettacoli. Con Ert si cerca di dare organicità nel percorso del singolo artista e in quello produttivo del teatro in generale. Mentre in Nozze la prospettiva era più storica, culturale e anche sociale perchè in qualche modo il focus era ritagliato sull’atteggiamento di una certa piccola borghesia di fronte ai terremoti della storia, qui è più ontologica, generale, fatto salvo il fatto che Gabriel è stato molto bravo nel testo a incastrare digressioni paleontologiche-religiose all’interno di un discorso microstorico, ovvero cosa accade in una famiglia abbastanza rivelatrice di una situazione generazionale degli attuali trenta-quarantenni nel momento in cui è evidente che un’intera era sta terminando. Parlo di fotografia generazionale perchè la famiglia che si vede in scena presenta la nonna che si sta estinguendo e i suoi nipoti, non i figli, per significare un meccanismo di cui spesso si è parlato in questi anni ovvero di quanto il mondo di oggi per i giovani o gli adulti quarantenni, me compreso, abbia più analogie sociali con la realtà dei nonni piuttosto che con quella dei genitori in termini di condizione di sviluppo mondiale. I nostri genitori sono figli di una fase di iper sviluppo, come quella del boom rampante della nostra economia e della nostra storia, mentre i nonni arrivano da una o più catastrofi e in certi aspetti l’epoca che stiamo vivendo somiglia più alla loro”.
Il teatro sta faticosamente cercando di ripartire dopo la pandemia. Come vedi il suo futuro?
“Il teatro ha effettivamente dimostrato di essere più sicuro rispetto ad altri posti, come si evince dalle statistiche pubblicate dall’Agis recentemente e ribattute dal Ministero che mostrano come l’incidenza del contagio nei luoghi di spettacolo dal vivo sia ridicola in rapporto alle presenze. C’è grande controllo e professionalità nel gestire i protocolli di sicurezza e questo aiuta a non ingolfare di nuovo una macchina che ha sofferto tremendamente e soffre tuttora in virtù dell’emergenza. Io credo che assolutamente sia necessario da un punto di vista governativo intervenire non con delle soluzioni tampone per assicurare la sussistenza dei lavoratori dello spettacolo, intento per altro notevole ma non risolutivo, e che sia invece fondamentale mettere mano a un progetto di legge per la tutela del lavoro intermittente sul modello francese o belga, quei sistemi di spettacolo dal vivo molto evoluti, con una particolare tipologia contrattuale, in base alla quale i lavoratori del settore, attori, musicisti, tecnici, artisti, vengono tutelati per quella che è la natura del lavoro che prevede l’alternanza tra momenti di grande e minore intensità. Solo con l’istituzione di un sistema di tutele si può sperare di essere pronti davvero a fronteggiare una fase di emergenza della cui durata non è ancora consapevole nessuno”.
credit ph Paolo De Chellis
Il 6 ottobre hai aperto la stagione del Teatro Arena del Sole con un altro spettacolo, “Dialoghi di profughi”, accompagnato sul palco dalla musicista Renata Lackó. Il reading era stato presentato su Rai Radio 3 lo scorso 15 giugno, giorno in cui sono stati riaperti i teatri dopo il lockdown…
“Dialoghi di profughi, senza far polemica, è stato proposto come oggetto di celebrazione della riapertura del 15 giugno, che è stata carica di ambiguità perchè dire che si sono riaperti i teatri non è conforme alla realtà. I teatri stanno facendo di tutto per essere attivi ma il sistema non è neanche lontanamente vicino ai livelli di attività precedente e sono decine di migliaia i lavoratori che sono a casa. Quindi proporre il 15 giugno una pièce radiofonica con un testo che parla di sradicamento è significato anche dire: è il giorno di una riapertura che però è ancora problematica e sulla quale c’è molto da lavorare”.
Passiamo alla tv, sei tra i protagonisti della serie di successo “L’Allieva 3”, in onda la domenica sera su Rai 1. Puoi anticiparci qualcosa riguardo gli sviluppi che avrà il tuo personaggio, Claudio Conforti, nella terza stagione?
“Posso anticipare veramente poco. In questa terza serie il mio personaggio si trova in una condizione diversa rispetto al passato, è molto meno solido ed è in crisi. E’ in una fase di stasi lavorativa, vorrebbe fare un salto di qualità in più ma è complicato riuscirci mentre Alice è in una fase di ascesa, è più autonoma e quindi il loro rapporto tra maestro e allieva cambia. E poi arriva Giacomo, il fratello di Claudio, a portare scompiglio”.

Ci racconti le sensazioni che hai provato tornando sul set dopo la pandemia per girare L’allieva 3?
“Ricominciare a girare è stato entusiasmante, per tutti noi non ha significato solo riprendere a fare L’allieva 3 ma tornare a lavorare e questo ha caricato di grandissima energia supplementare sia il cast artistico che la troupe tecnica. Ho notato fin da subito che i set che dispongono di risorse economiche hanno saputo organizzarsi per garantire la massima sicurezza possibile ai lavoratori. Ci sono ad esempio le figure dei covid manager che sorvegliano lo stato di rispetto dei protocolli. Inoltre tutti hanno accolto la proposta di fare tamponi settimanali agli attori protagonisti e le analisi sierologiche per la troupe ogni 10-15 giorni che hanno garantito la massima tranquillità possibile. Se lavoratori, produzioni e governo operano insieme nella direzione della messa a disposizione degli strumenti più efficaci è possibile girare in sicurezza”.
In quali progetti ti vedremo prossimamente?
“Sto per cominciare le riprese di un mistery-drama in dodici episodi per la Rai dal titolo “Sopravvissuti”. E’ una coproduzione con la tv tedesca ZDF e con France Télévisions, con un cast internazionale. Si tratta di una serie bellissima e molto ambiziosa e sono felice di poter affrontare questa nuova sfida sul set. Per quanto riguarda il teatro, una volta portato in scena lo spettacolo “La mia infinita fine del mondo” valuterò come riuscire a realizzare i prossimi impegni. Avrebbero dovuto esserci un paio di progetti belli e importanti in questa stagione, dobbiamo capire quando recuperarli”.
di Francesca Monti